La vicinanza umile di Cristo che consola e accompagna
«Consolate, consolate il mio popolo», dice il profeta Isaia che abbiamo ascoltato nella Prima Lettura.
È una delle parole più dolci della Scrittura, una parola che rivela il volto di Dio: un Dio che non si compiace dei rimproveri, ma che desidera prima di tutto asciugare lacrime, rialzare chi è caduto, dare forza a chi è stanco. La vera religione dovrebbe nascere da qui: da una vicinanza che riscalda, da un ascolto che accoglie, da una presenza che sostiene.
Eppure, non sempre è così. A volte il nostro essere cristiani corre il rischio di diventare un insieme di abitudini, di forme esteriori, di pratiche da svolgere, più che un luogo dove ritrovare vita. A volte ci si rifugia nella religione per paura, per non guardare in faccia le proprie ferite, per non affrontare ciò che chiede coraggio. Ma il Dio della Bibbia non invita a fuggire dal mondo: invita a entrarci dentro, con fiducia.
- Il Vangelo ce lo mostra concretamente. Gesù entra a Gerusalemme. Non un ingresso trionfale nel senso umano del termine, ma un atto di profonda vicinanza: Dio che si fa così prossimo all’uomo da condividere la sua città, la sua storia, perfino la sua ostilità. Gerusalemme è la città che uccide i profeti, eppure Gesù entra proprio lì. Non resta alla porta, non si tiene distante. Varca la soglia e si consegna. È l’immagine di un Dio che non ha paura delle nostre zone d’ombra, delle nostre contraddizioni, dei nostri rifiuti.
E come entra? Non su un cavallo da guerra, ma su un asino: l’animale del lavoro, dell’umiltà, dei passi semplici. È un gesto che parla. Dice che il Regno non avanza con la forza, ma con la mansuetudine; non con la potenza, ma con la pazienza; non dominando, ma servendo. L’asino porta il peso, avanza lentamente, e così fa Gesù: porta su di sé la nostra vita e cammina al nostro passo.
Di fronte a questa immagine nasce spontanea una domanda: noi, come Chiesa, da che parte stiamo? Sappiamo entrare nella città dell’uomo come fa il nostro Signore? Oppure ci fermiamo fuori, mantenendo distanze, erigendo barriere, temendo di sporcarci le mani? - Ma il Vangelo ci ricorda un’altra via. Gesù non entra nella città per difendersi, ma per incontrare. Si siede con chi è lontano, ascolta le domande di chi non capisce, accoglie la storia di chi ha sbagliato. Non pone condizioni per amare, non chiede perfezione per avvicinarsi. Cammina tra la gente e porta con sé un’unica ricchezza: il Padre e la sua misericordia.
Anche noi siamo chiamati a fare “la fatica dell’asino”: portare Gesù. Portarlo non con la superbia di chi sa tutto, ma con l’umiltà di chi serve; non con la durezza di chi pretende, ma con la dolcezza di chi accompagna. Portarlo nelle pieghe della vita quotidiana, dove le persone lottano, amano, sbagliano, ricominciano. Portarlo senza paura del mondo, perché il mondo – con tutte le sue contraddizioni – è il luogo che Dio ha scelto per abitare.
E allora, forse, “consolare” significa proprio questo: non dare risposte facili, ma essere presenza; non offrire ricette rapide, ma camminare insieme; non parlare da lontano, ma entrare nelle case, nelle strade, nelle storie. Gesù non promette una vita senza fatica: promette una amicizia che non delude.
Il profeta dice: «Consolate il mio popolo». Il Vangelo ci mostra come farlo: entrando, non fuggendo; ascoltando, non giudicando; portando speranza, non paura. È questo il cammino che ci prepara ad accogliere il Signore che viene. È questo il modo con cui noi stessi possiamo diventare consolazione per il mondo.